La grande illusione

Sala 2

Lunedì, 12 Gennaio 2015

"Ho realizzato La grande illusione perché sono pacifista. ... Ero ufficiale durante la guerra ... e non eravamo animati da alcun odio contro i nostri avversari. ... Attraverso il ritratto di uomini che compiono il loro dovere, secondo le leggi della società, credo di aver portato il mio umile contributo alla pace del mondo". (Jean Renoir)

 

Scheda

Regia: Jean Renoir
Paese: Francia
Anno: 1937
Durata: 117 min
Interpreti:  Jean Gabin, Pierre Fresnay, Erich von Stroheim, Dita Parlo, Marcel Dalio e molti altri

Trama

Scene da un campo di prigionia tedesco durante la Grande Guerra. Un ufficiale francese di origine aristocratica si sacrifica per favorire la fuga di due suoi subalterni di origine popolare. Specchio del francese è il tedesco comandante del campo, anch'egli di vecchio stampo, minato nel fisico e nel morale. Entrambi incarnano un mondo destinato a scomparire mentre i fuggiaschi sono metafora della nuova società.

Critica

«Capitano, non le piacciono le Illusioni?», «No, io sono realista». Battuta folgorante e centrale di uno dei film più famosi di Jean Renoir, di nuovo sul grande schermo in edizione restaurata grazie alle iniziative della Cineteca di Bologna. Capolavoro del cinema antimilitarista, manifesto malinconico e pacifista di una generazione in via di estinzione, amalgama purissimo di leggerezza e grazia, sereno umorismo e riflessione profonda sul reale. Un film sulla pace che parla di guerra, crede alla solidarietà fra gli uomini ma guarda con realismo alle barriere che li dividono. «Ho realizzato La grande illusione perché sono pacifista» spiegò il regista senza mezzi termini, guadagnandosi il titolo di “avversario cinematografico n.1” del nazismo.  

Premi e Festival

Coppa della Giuria al Festival di Venezia 1937 e nomination agli Oscar per il Miglior Film nel 1939 

Rubrica

La Grande Illusione, il capolavoro di Jean Renoir è nuovamente in sala in una versione restaurata preziosissima, distribuita in lingua originale Francese con sottotitoli Italiani, grazie alle iniziative della Cineteca di Bologna. Un film sulla pace che parla di guerra, crede alla solidarietà fra gli uomini ma guarda con realismo alle barriere che li dividono. Temuto dal terzo Reich ma non solo... “Felice il tempo che non ha bisogno di eroi!” fa dire Brecht al suo Galileo. E nel secolo scorso di eroi c’é stato un gran bisogno. Ma può essere definito “eroe” un film? Pensiamo di sì, se ripercorriamo la storia de La grande illusione. Nonostante la Coppa della Giuria al Festival di Venezia 1937, Mussolini lo vietò in Italia e solo nel ’47, ampiamente tagliato, il film tornò nelle sale (una firma celebre sul decreto di censura fu quella di Giulio Andreotti). Ma la censura l’aveva colpito anche in madrepatria. Già all’uscita, infatti, fu imposto a Renoir di eliminare molte scene, come quelle sulle malattie veneree dei militari. Questo fino a quando Vichy non ne decise il sequestro definitivo. Il Ministero della Propaganda di Hitler, da parte sua, aveva già ampiamente provveduto all’ ostracismo della pellicola in Germania, e fu così che, negli anni della seconda guerra mondiale, il film scomparve del tutto, al punto che si pensò fosse andato distrutto. Nel ’46, tornata fortunosamente alla luce una copia in grave stato di alterazione, il film fu rimesso in circolazione, ma ne pagarono le spese Dita Parlo e la sua parte, breve ma intensa, di contadina tedesca protagonista di una delicatissima liaison amorosa col fuggitivo Jean Gabin. Nel ’58 il regista e il co-sceneggiatore Charles Spaak ne riscattarono i diritti per distribuirlo e Renoir, in mancanza del negativo originale, tentò di ripristinare un montaggio abbastanza fedele delle scene, ma bisognò aspettare la fine della guerra fredda perché la copia ufficiale del film, deportato, è il caso di dirlo, da Parigi a Berlino prima della guerra e fatto prigioniero dall’Unione Sovietica alla fine, divenisse oggetto di scambio fra la cineteca di Mosca e quella di Tolosa. Contropartita chiesta da Mosca per lo scambio: un film della serie 007. Oggi la Cineteca di Bologna presenta la versione originale francese, con sottotitoli italiani, in 70 sale, dopo il restauro realizzato dal laboratorio L’Immagine Ritrovata. Resta da chiedersi cosa abbia reso così inviso il film ai governi di mezza Europa, trattandosi di guerra (quella del ‘14/’18) proprio quando venti di guerra soffiavano impetuosi da un capo all’altro del vecchio continente. La grande illusione é innanzitutto un film senza battaglie né morti, e questo non passò inosservato all’occhio acuminato del censore (l’unico a morire, per sua scelta, lo farà per amore della vita stessa e per salvare altri, ma non bastava a redimere il film dalle accuse di propaganda antipatriottica). E poi quel titolo! Un programma, una sfida all’intero establishment politico-militare del momento, così prodigo nel tessere alleanze e inviare “aiuti fraterni” a dirimere controversie politiche e preparare alle nazioni un futuro di prosperità e benessere (l’uscita film, nel ’37, avvenne all’indomani dello scoppio della guerra in Spagna). Se poi non risultasse chiaro il senso sotteso a tutta l’opera, uno dei personaggi-chiave, il ricco tenente ebreo Rosenthal (Marcel Dalio), basterebbe da solo a prefigurare scenari venturi in cui l’aspirazione alla pace, peraltro normale dopo i milioni di morti della Grande Guerra, si rivelò davvero una grande illusione. Dunque, a conti fatti, nonostante fucili, divise ed elmetti se ne vedano parecchi sulla scena, La grande illusione è in realtà un film pacifista. Le sequenze in cui si divide la storia, l’arrivo dei personaggi sulla scena e la loro caratterizzazione, i momenti topici a cui Renoir affida il suo messaggio, le allegre divagazioni sull’onda di motivetti sonori presi dai bistrots parigini, la grande scena della Marsigliese, intonata dal coro dei prigionieri e portata fino alla fine senza interruzioni, tutto vive in un’amalgama purissimo di leggerezza e grazia, sereno umorismo e riflessione profonda sul reale, mentre tesse di volta in volta processi di centratura prospettica e focalizzazioni tematiche alimentati da profonde idealità, quelle che fecero dire a Renoir: “Ho realizzato La grande illusione perché sono pacifista”. Questa sottilissima satira sulla guerra, affilata più di una baionetta, fu fortemente voluta anche da Jean Gabin, primo fra i protagonisti nel ruolo di Maréchal. L’incipit del film lo riprende al bar, chino su un grammofono che suona Fru Fru del tabarin. Aspetta di andare dalla sua bella, ma il capitano, l’aristocratico barone de Boeldieu (un ironico e magnificamente raffinato Pierre Fresnay, l’incarnazione stessa della classe a cui appartiene), lo convoca per una missione. La successione degli eventi partirà da lì e, passando per la solida fortezza teutonica di Wintersborn, finirà fra le immacolate nevi svizzere, lì dove i proiettili non possono arrivare e da dove, forse, ripartirà la Storia.Maréchal é il sano, vigoroso uomo del popolo su cui la guerra passerà stritolando. Ma per ora la sua carica vitale é intatta e incrollabile il desiderio di futuro. Sguardo divertito sul mondo, anche nei momenti più difficili, é suo il magnifico sbadiglio che, con quello più contenuto di de Boeldieu, lo fotografa all’inizio in una specie di araldica iconostasi, con al centro il soldato tedesco dal viso di buon padre di famiglia, mentre la solenne iconografia legata da secoli alla guerra e alla sua rappresentazione si va frantumando in piccolissimi pezzettini. Ancora a lui appartiene quel rifare il verso, “Streng Verboten!”, al tedesco che legge gli ordini ai prigionieri nel cortile. In quel campo dove la disciplina ha maglie molto larghe e carcerati e carcerieri sembrano solo esseri umani, capitati là per uno di quei balordi scherzi della Storia che spesso costringono a riavvolgere il film delle vicende umane, s’incontrano anche i resti di un ancien régime che sta intonando il suo de profundis. Sono il barone de Boeldieu e il maggiore von Rauffenstein (Erich von Stroheim), severo ufficiale tedesco a capo della fortezza in cui arriveranno i tre francesi (Maréchal, de Boeldieu e Rosenthal) particolarmente distintisi per acrobatici, numerosi e pittoreschi tentativi di fuga. Sulla lettura dei capi d’imputazione ai tre prigionieri un sorriso impercettibile increspa le labbra del maggiore. Il grande von Stroheim ha tutto, presenza, portamento, ferite di guerra in bella evidenza, ma non sembra un tedesco. O, potremmo dire, sembra un tedesco dal volto umano. La sua performance è di quelle che segnano tappe nella storia del cinema: “Se faccio del cinema è in gran parte colpa di Stroheim – dichiarò Renoir – il quale condivide questa responsabilità con Charlie Chaplin e D.W.Griffith. Stroheim mi ha insegnato moltissime cose, ma il più importante dei suoi insegnamenti, forse, è che la realtà non ha valore se non è trasfigurata. Più tardi ho avuto l’onore di averlo come interprete del mio film La grande illusione. Egli fece di tutto per farmi dimenticare che era uno dei profeti del nostro mestiere.Gliene sono riconoscente, ma assai meno che per quelle poche essenziali lezioni che mi aveva dato da lontano, una ventina di anni prima.” E’ forse il tema più forte del film, quello delle differenze e delle alleanze che separano e uniscono, in pace e in guerra, e mai si integrano, nonostante tutto. L’incontro dei due uomini che l’appartenenza di classe rende solidali e contigui, al di là delle barriere nazionali, ma divide dal resto della società che Maréchal esprime, è espressione di un mondo che sta declinando, ma che tuttavia resta fedele fino in fondo ai suoi codici di rappresentazione della realtà. Anche se spesso intorno ad un tavolo a mangiare e chiacchierare cordialmente, anche se tra i due ufficiali e il resto della truppa c’è rispetto e stima reciproca, le separazioni si ripropongono costantemente e sono evidenti sul piano linguistico, nella gestualità minima quotidiana, nel sottile disagio e in quella specie di soggezione che frena un’integrazione totale. “Ci conosciamo da diciotto mesi e ancora ci diamo del voi!” esclama con irruenza Maréchal, e de Boeldieu risponde con suprema nonchalance: “Do del voi anche a mia moglie”. Ma siamo alla fine di un’epoca, e loro lo sanno. Sta arrivando sul piano inclinato della Storia un cambiamento totale e von Rauffenstein si chiede se ne valesse la pena. Ma non si aspetta una risposta. Forse “sono i regali della Rivoluzione Francese”, come dice, o forse è il normale cammino dei tempi, non resta che guardare agli eventi col distacco opportuno. A de Boldieu toccherà una morte accettata con la serena coscienza di aver ubbidito fino in fondo al codice d’onore proprio e della propria classe, a von Rauffenstein toccherà una sorte più dolorosa, quella di sopravvivere in un tempo che non ha più posto per lui, mentre il Quarto Stato marcia vittorioso verso la sua libertà. (www.indie-eye.it)

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